Un padre anarchico, da quarant’anni. La figlia ha 11 anni, il figlio (9) anarchico anche lui, come Valerie, la madre. Per i figli, una vita familiare da sempre “segnata” da quelle strane idee: i compagni di Roma e da tutto il mondo, lo “zio” Bruno. il mensile anarchico a segnare il calendario da prima della nascita, le lotte antiBerlusconi, i comizi di papà. Che un giorno viene sollecitato a spiegare le sue idee. E lo fa, raccogliendo le parole di una chiacchierata in famiglia. E il parere di un’altra (figlia) ventiquattrenne. |
– Ciao, che ascolti? – Roba forte! – Che genere di roba forte? – Musica punk, è un cd che mi ha prestato un amico. – Italiani? – No, è un gruppo inglese, punk anarchici... – Ah... – Testi molto intensi, la loro musica mi piace molto... Però c’è un problema. – Di che genere? – Questo mio amico esce con dei ragazzi che si definiscono anarchici, ascoltano tutti questo genere di musica e mi piacerebbe frequentarli. – E qual è il problema? – È che io sugli anarchici ho le idee confuse... – Ti puoi sempre informare, documentare. – Non potremmo invece parlarne insieme un po’? – Va bene, fammi prima capire come mai ritieni che le tue idee sugli anarchici siano confuse. – Beh, se ne parla come fossero pericolosi e violenti. Ogni tanto in televisione si sentono notizie di attentati che dicono essere stati compiuti dagli anarchici... Altri ancora li considerano poeti, sognatori, gente che vive con la testa fra le nuvole. Guardando come si vestono certi ragazzi, con il simbolo della “A” appiccicato ai vestiti, ho pensato che l’anarchico potrebbe essere colui che rifiuta ogni convenzione, che vuole essere libero di fare ciò che vuole, libero di vivere senza limitazioni. Poi ho ascoltato qualcuno che li definisce persone coerenti fino all’estremo, pur di sostenere la loro causa. – E vorresti sapere chi ha ragione, chi siano in realtà questi fantomatici anarchici e cos’è veramente questa anarchia che propugnano... – Mi hai letto nel pensiero. – Prima di narrare le loro gesta forse conviene parlare dell’idea che li muove. Voglio anche dirti la mia opinione sul perché esistano vari modi di definire gli anarchici, quasi tutti convergenti nel fornirne un’immagine negativa o fuorviante: in soldoni, o sono dei violenti senza ragione o dei disadattati sociali. – Vorresti dire che qualcuno cerca di nascondere il vero significato delle parole “anarchico” e “anarchia”? – Proprio così. Pensa un po’, per chi in questa società sta in alto e ha dei privilegi da difendere, gli anarchici rappresentano una minaccia, mentre per chi sta in basso e avrebbe molte cose da rivendicare per migliorare la propria condizione, questi sono una fastidiosa coscienza critica. – Allora hanno ragione, dal loro punto di vista, a definirli pericolosi o anche terroristi! – Chiaro! Dal momento che l’immagine generalmente offerta dell’anarchico sui libri, sulla stampa e alla televisione, dagli stessi film in cui si parla di loro (con rare eccezioni), è sempre deformante, si è diffusa a livello generale una conoscenza sbagliata su questa idea e sui suoi sostenitori, finalizzata a disinnescarne tutto il potenziale innovativo e sovversivo. «L’anarchia è il caos!» dicono in tanti, di conseguenza gli anarchici sono pericolosi. Sostenendo l’abolizione di ogni privilegio, la messa in comune dei mezzi di produzione, la distribuzione egualitaria dei beni, i soggetti in questione possono innescare turbamenti sociali tali da mettere in crisi o sovvertire la società attuale; possono indurre la gente a riflettere sulla propria condizione e spingerla a rivoltarsi per migliorarla. Non sono terroristi, però. L’uso di questo termine è voluto dal potere per creare attorno agli anarchici una cortina di diffidenza e anche di paura, in modo da poterli così tenere isolati. In realtà, eccetto pochi casi, i gesti più eclatanti degli anarchici, come gli attentati – spesso riusciti – contro re, tiranni, oppressori e contro istituzioni e simboli del potere, hanno sempre raccolto molte simpatie nei ceti popolari, il contrario di ciò che potrebbe provocare un gesto terroristico, teso cioè a terrorizzare la massa. Terrorista è colui che spara nel mucchio, che colpisce in maniera indiscriminata, mentre gli anarchici, in particolare coloro che hanno adottato sistemi di lotta più radicali, ripeto, tranne pochi casi circoscritti, hanno sempre scelto con cura i propri obiettivi e hanno messo in atto azioni, spesso simboliche, considerandole veri e propri atti di propaganda delle loro idee. Nonostante questo è facile sentir parlare di individui da cui stare alla larga... – Devono avere proprio una gran bella paura di loro! – Diciamo che questo rientra in un certo diritto all’autodifesa. Vedi piccola, in genere nella lotta politica i partiti si combattono fra di loro e sembra che fra alcuni vi siano in determinati momenti posizioni inconciliabili; lo stesso avviene all’interno delle istituzioni, tra enti, organismi che sembrano sempre sull’orlo della rissa, della rottura più totale. Queste contrapposizioni non sono mai serie e foriere di fratture irreparabili, anzi, spesso non sono neanche vere, e sai perché? Perché tutti condividono le stesse regole del gioco; tutti fanno parte integrante dei meccanismi politici, economici e sociali che a parole sembrano rigettare. Tutti condividono l’impalcatura generale dell’apparato – lo Stato – e se litigano, è solo perché sono in concorrenza per la conquista di posti di privilegio. Ma c’è un movimento che ha una posizione di radicale rifiuto nei confronti di queste regole e di questo apparato, vi si contrappone, dichiarando apertamente che non aspira a nessun potere, non desidera cambiarne delle parti o modificarne le forme, ma solo ed esclusivamente abbatterle. Nella loro lunga storia gli anarchici si sono così ritrovati a ricoprire un doppio ruolo, quello di distruttori della società odierna autoritaria e oppressiva (e quindi considerati dei violenti) e quello di edificatori di un “mondo nuovo” (e quindi definiti sognatori incalliti). – Quindi gli anarchici non sono pericolosi? – No, non sono individui nati con qualche tara nel cervello! Sono solo persone che si sono fatte un’idea precisa sul mondo e sull’organizzazione della società in cui vivono, e si industriano a trovare delle metodologie per affermare le loro idee basate sulla fratellanza, l’uguaglianza e la libertà. Da qui il loro disinteresse per il sistema dei partiti, per il sistema economico, per istituzioni autoritarie come il governo e lo Stato che li rende liberi da ogni condizionamento. Un atteggiamento che non ha come conseguenza la passività e la delega, si tramuta al contrario in una lotta diretta, praticata in prima persona, per edificare una società dove non vi sia nessun tipo di governo. – Perché pensano che non vi possano essere governi giusti che aiutano i poveri, che assicurano il benessere a tutta la popolazione? – Ogni governo è emanazione di una classe privilegiata; i politici sono al suo servizio, spesso appartengono loro stessi al mondo privilegiato. Questi personaggi difendono i loro interessi, quelli della loro classe, e questo non può che andare a discapito di tutti gli altri, delle cosiddette classi subalterne. Anche quando un governo facesse delle leggi per alleviare la povertà, com’è accaduto, sarebbero comunque il risultato di un ragionamento all’interno dei salotti della borghesia, indotto per ricavarne un tornaconto sia in termini di pace sociale, cioè di attenuazione delle tensioni e del malessere diffuso, sia in termini di aumento della capacità di acquisto delle classi popolari, volto a dare un impulso al sistema produttivo e allargare i suoi profitti; che poi è ciò che sta alla base della nostra società dei consumi. Nessun governo e nessun governante può avere interesse a danneggiare le classi ricche; l’unico interesse possono averlo coloro che i ricchi sfruttano, per i quali cambiare sistema, abolire il governo, può rappresentare l’inizio di una vita migliore. – Neanche un governo di anarchici? – Non sarebbero più anarchici, cesserebbero di esserlo nel momento in cui accettassero di sedere al governo. E tutti i loro propositi, tutte le loro buone intenzioni si spegnerebbero qualora la loro azione procedesse; il governo è una macchina che agisce in maniera parassitaria sulla società; i privilegi che la posizione di governo assegna ai suoi rappresentanti istituzionali li farebbero comunque de-viare dalle loro idee iniziali. Se invece intendessero perseguirle nonostante tutto, allora interverrebbero quelle forze che danno sostanza all’azione di un governo: i militari, i banchieri, gli industriali... E lo impedirebbero, con le buone o con le cattive. Ai governanti non resterebbero che due alternative: ammettere il fallimento delle loro pretese, diventare realisti, dimenticare le loro idee e agire come hanno fatto tutti i loro predecessori, magari con qualche intervento caritatevole in più, che non intacca i privilegi consolidati; oppure semplicemente rinunciare all’impresa e tornarsene a casa con la consapevolezza che è impossibile cercare di migliorare la società in maniera sostanziale attraverso la conquista del governo. – Aspetta un attimo, stiamo toccando dei punti piuttosto delicati... Essendo contro tutti gli anarchici hanno tutti contro. Ma vorrei capire il senso di questo loro essere contro tutti. Perché dovrebbero avere ragione proprio loro, un’infima minoranza, rispetto agli altri che rappresentano la maggioranza? – Anche tu stai ponendo delle domande mica da poco! Vediamo di procedere a piccoli passi. L’anarchia è il grande sogno della libertà che ha spinto gli esseri umani a volere il meglio per sé e per l’ambiente che li circonda. Una sorta di fiamma che arde dentro, un sentimento istintivo che ogni essere vivente prova e che lo rende insofferente davanti a qualsiasi limitazione della propria libertà, davanti a qualsiasi regola coercitiva. L’uomo ha sempre cercato nella propria vita di vivere il più liberamente possibile, e questo è stato il vero motore della storia, ciò che ha animato gli uomini e le donne, i movimenti sociali, scientifici e artistici che hanno caratterizzato il progresso dell’umanità dalla preistoria fino ai giorni nostri. – La libertà però, non l’anarchia... – L’anarchia altro non è che una società organizzata sulla base della libertà; è la consapevolezza che gli esseri umani possono vivere in libertà attraverso la definizione di un sistema di relazioni sociali anti-autoritarie, in cui lo svolgimento delle attività umane, dalle più semplici alle più complesse, avviene in modo che ognuno, all’interno di libere assemblee, abbia la possibilità di perseguire la propria felicità, senza subire le prevaricazioni altrui. L’estensione delle possibilità a tutti, la massima decentralizzazione, la fine dei privilegi... I suoi detrattori parlano di caos perché ritengono impossibile vivere senza le regole dettate da un’organizzazione sociale gerarchica, mentre l’anarchia altro non è che la libertà organizzata, una ricerca permanente dell’armonia tra responsabilità e libertà, tra individuo e società. – Non ti sembra un po’utopistica come idea? – Eccome se lo è... Ma tutta la storia dell’umanità altro non è che il tentativo di realizzare l’utopia. Questa non è un’illusione; piuttosto si tratta di un sogno non ancora realizzato, ma non irrealizzabile. Tu pensi possa esistere una vita senza nessun sogno da perseguire? Può un individuo vivere senza progetti a cui tendere, anche se apparentemente sembrano impossibili? Come credi venisse considerato un Leonardo da Vinci quando studiava le ipotizzabili applicazioni all’uomo delle leggi di volo degli uccelli? – Un folle, oppure un sognatore. – Appunto. Eppure è grazie ai suoi studi, alle sue intuizioni, alla sua ricerca dell’impossibile che lentamente l’uomo è riuscito a trovare il modo di volare... E di fare tante altre cose. Solo chi non rinuncia a sognare ha la certezza di andare in qualche modo avanti. Chi si ferma si rassegna ad una vita limitata, normale e banale. Sognare non vuol dire per forza allontanarsi dalla realtà ma può voler dire avere delle idee completamente innovative, idee-sogni che possono contribuire a migliorare l’esistente. Dopotutto è quello che fanno tutti i ricercatori, gli scienziati indipendenti dal potere, o coloro che vogliono sperimentare stili di vita diversi, modi nuovi di lavorare, realizzazioni nel campo dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica. E la storia sai cosa ci insegna? – Che cosa? – Che tutti gli innovatori, tutti i curiosi, tutti coloro che hanno cercato di vedere oltre il già visto sono stati perseguitati dal potere temporale, arrestati, processati, anche uccisi, oppure sono finiti ammaestrati rinunciando ai loro progetti o mettendo le loro intelligenze al servizio degli oppressori. – Erano considerati pericolosi? – Dimostravano l’assurdità degli assolutismi, testimoniavano che altre verità erano possibili, che altre idee dovevano avere diritto di cittadinanza, e di conseguenza anche altre forme del vivere sociale, meno inique, o per nulla inique, erano possibili. Il “Potere”, che è sempre conservatore – o come diceva un’anarchica francese, Louise Michel, è maledetto – li temeva, perché aprivano delle crepe che potevano portare alla sua lenta rovina. Ipazia d’Alessandria, Galileo Galilei, Giordano Bruno e tantissimi individui noti e meno noti, in ogni angolo del mondo, si sono trovati ad un certo punto a dover mettere in discussione le verità imposte dalla Chiesa, dai regnanti, dallo Stato, in nome non di una opposta verità assoluta, ma della libera ricerca, della sperimentazione, del diritto al dubbio. Hanno pagato di persona per questo. Ma se non ci fossero stati individui come questi l’umanità non avrebbe fatto alcun passo in avanti nel campo delle scienze, della tecnica, dell’arte, del pensiero, all’insegna di un’affermazione di libertà, magari non completa, comunque innegabile. Tuttavia noi vediamo come queste conquiste siano state e vengano ogni giorno messe in discussione dalle forze che difendono lo stato delle cose, ovvero il sistema dei privilegi e il dominio di pochi sulla moltitudine. – È vero questo discorso sui sogni, però mi sembra strano pensare che possa covare nelle persone comuni. Nei giovani magari sì, perché siamo portati a vivere di grandi sogni, anche se poi impariamo lentamente a sgonfiarli, o assistiamo al loro ridimensionamento man mano che entriamo nel mondo degli adulti. – Io credo che anche gli adulti coltivino dei sogni. Credo che ognuno di noi insegua qualcosa, si tratti di sogni d’amore o di quello meno nobile di una vincita al “gratta e vinci” che cambi la vita. La dimensione utopica non ci abbandona mai totalmente. Certamente, a forza di sottostare ad un certo tipo di educazione, di subire il bombardamento mediatico coi suoi messaggi di propaganda, spesso anche i nostri sogni vengono condizionati e incanalati verso mete artefatte. Questo a dimostrazione di come ancora oggi il potere sia cosciente della pericolosità dei sogni. Soprattutto quando il sogno di uno può diventare quello di molti. Una sorta di proverbio anarchico dice: quando a sognare è uno solo non è altro che un sogno, quando a sognare sono in tanti è l’inizio della realtà. Detto in altri termini, dall’aspirazione individuale bisogna passare a quella collettiva, alla consapevolezza che le idee coltivate devono avere una qualche possibilità di affermarsi nella realtà, e questo è possibile solo con il coinvolgimento collettivo. – Quindi sognare è quasi professare idee anarchiche? – No di certo, ma è comunque mantenere un grado di spontaneità e di libertà interiore, che poi è la base per qualsiasi passaggio ad un livello superiore, quando il sogno si misura con la realtà e ha inizio il balletto fra innovazione e conservazione. La società autoritaria regolata dallo Stato è cosciente di questo; quando non può spegnere i sogni lavora alla deformazione dei loro significati. C’è un luogo comune che recita «chi non è stato anarchico a vent’anni!», in Francia lo stesso è tradotto con «a vent’anni anarchico, a trent’anni socialista, a quarant’anni conservatore». Secondo i sostenitori di simili amenità l’idea anarchica altro non sarebbe che una sorta di malattia giovanile, un’acne utopistica che si prende ad una certa età ma che poi scompare con la crescita. L’intenzione è sempre quella di disinnescare un’idea, sottraendole ciò che più la caratterizza: il sogno dei sogni, il desiderio di un forte cambiamento sociale, l’instaurazione di una società senza Stato. Non a caso gli anarchici non sono tutti dei ventenni sognatori impenitenti, ma donne e uomini di tutte le età, egualmente coinvolti nel medesimo sogno, che tentano di far vivere e di propagandare con modalità, metodologie, mezzi differenti, a seconda dell’indole di ognuno e delle condizioni in cui si trovano ad operare: chi organizza i lavoratori e chi si dedica ad uno stile di vita alternativa, chi propende per l’educazione e chi per l’azione diretta contro le istituzioni, chi preferisce un approccio individualista e chi uno più organizzato, chi è impegnato nell’ambito delle arti e chi in quello della libera sperimentazione. – Ci sono tanti ragazzi che si dicono anarchici, ma si occupano solo di musica; secondo te anche la musica può essere un mezzo per distinguersi e “combattere il potere”? – Le espressioni artistiche sono la manifestazione della creatività dell’individuo. Chi si dedica all’arte non può non proiettarsi in una prospettiva libertaria, cioè in un cammino che conosce ostacoli, regole, censure, condizionamenti; questo lo pone oggettivamente a distinguersi – come dici tu – dal potere. La musica è un veicolo di socializzazione e di liberazione dei corpi; oggi assume anche un valore di contestazione, proprio perché rappresenta quella fiamma ardente dentro l’individuo, quel collegamento con la sua natura di essere libero. La realtà però ci dimostra anche come il potere, da sempre, abbia combattuto gli artisti, sia reprimendoli sia comprandoseli, facendoli diventare dei cagnolini ammaestrati: pittori e cantori di corte, che tessono le lodi dei dominatori. In mezzo vi stanno tutti i creativi che dichiarano di non schierarsi, ma che sono utili al sistema per distrarre o addirittura addormentare le menti degli oppressi. Quindi bisogna stare attenti, perché l’arte se non libera può diventare il suo opposto: un mezzo per tenere a bada gli spiriti ribelli e per ingabbiare la creatività e metterla al servizio del sistema. Per questo un vero artista (e non sto a disquisire su quello che fa e come lo fa) deve sempre mantenersi fuori dalle stanze dei potenti. – Insomma, alla fin fine, ci potrebbe essere un anarchico in ognuno di noi... Inconsapevolmente, tutti potremmo essere anarchici. – Su questo non c’è alcun dubbio! – Ma cosa mi dici dell’egoismo? Non è più facile che l’uomo pensi a se stesso e se ne freghi degli altri? – L’egoismo è una componente fondamentale dell’indole umana, rappresenta l’attaccamento dell’individuo agli istinti naturali, la ricerca della soddisfazione personale, il suo essere libero e geloso della propria indipendenza. Grazie all’egoismo, un soggetto si difende dall’esterno quando questo cerca di assoggettarlo. L’educazione autoritaria e i condizionamenti che l’individuo subisce sin dalla nascita tendono tutti a stravolgerne la “natura selvaggia”, a farne un essere consenziente e obbediente, ammaestrato dalle regole autoritarie al rispetto delle gerarchie. L’egoismo umano, se non sviluppa un senso di autodifesa da queste aggressioni, può trasformarsi in un atteggiamento di prevaricazione: soddisfare se stessi a scapito degli altri. È la società autoritaria a deformare e rendere l’egoismo umano un elemento di attrito e di divisione. Un contesto diverso coglie tutto il bene che l’egoismo contiene e ne fa la base di qualsiasi rapporto solidale. Io sto bene, sono contento, mi soddisfo, nella misura in cui anche gli altri stanno bene, sono contenti, sono soddisfatti. Potrà sembrarti un paradosso ma l’egoismo è parente stretto dell’altruismo. Fortunatamente l’autoritarismo non riuscirà mai a cancellare del tutto l’istinto alla libertà, l’io primordiale di un essere umano. – Davvero? Mhm... Potresti spiegarti meglio? – Guarda i bambini, quelli più piccoli, di pochi mesi o anni. Ancora liberi da condizionamenti autoritari, perché non formati culturalmente, o formati ancora solo in modo parziale, non conoscono convenzioni, paure, remore, omertà; il loro comportamento è estremamente libero e rifugge da ogni intruppamento. Anche se con gli anni la loro natura viene forgiata da tecniche educative autoritarie, negli individui adulti che diverranno rimane molto di quell’animale libero che erano alla nascita. E per tutta la vita arderà questo barlume, questa insofferenza alle costrizioni, alla disciplina e all’autorità, spesso temuto da loro stessi nel momento in cui saranno coscienti che dare libero sfogo a questi istinti li esporrebbe a rischi. Ecco perché nel corso della nostra vita siamo tutti una specie di campo di battaglia tra la libertà che cerca di emergere e l’istinto a reprimerla che ci viene inculcato fin dalla più tenera età. Spesso questa fiamma soccombe, soffocata da istinti indotti come la ricerca del successo, l’arrivismo, la scalata sociale o la paura di perdere quello che si è acquisito, e anche da atteggiamenti più profondi e irrazionali, tipici della psicologia umana. Ma quando riusciamo ad essere spontanei, quando ci muoviamo nell’ambito di una sfera serena e libera, siamo l’esempio vivente di come una società non gerarchica sia possibile, anche se lo facciamo in maniera inconsapevole. – E come? – Beh, sono tantissime le situazioni in cui le persone si comportano in maniera antiautoritaria senza che ce ne rendiamo conto... Ti ricordi quest’estate al mare, quando siamo stati invitati al barbecue? Tutto era stato organizzato dai nostri vicini con un passaparola, si è fatta la spesa e poi i costi sono stati ripartiti fra i partecipanti. Alcuni hanno portato il barbecue, altri la carbonella, altri ancora si sono messi a preparare i tavoli. C’era poi chi tagliava il pane, chi preparava il necessario per la festicciola del dopo cena... Al momento di mangiare – te lo ricordi? – ognuno si è servito da sé, i bambini più piccoli venivano aiutati da chi si trovava in prossimità del cibo e delle bevande. Subito dopo ci siamo messi a riordinare la piazzetta, senza nessuno che desse ordini o che se ne stesse a guardare. Poi è iniziata la musica, in un clima di comunanza e allegria. Una cosa semplice, fatta senza minimamente pensare a gerarchie o ruoli predefiniti, senza nemmeno chiedere il permesso al comune per la piazzetta o alla siae per la musica... Una cosa che si chiama autogestione e che ha un collante fortissimo, la solidarietà. – Sì vabbè, ma si tratta di un fatto limitato... – Non credi che se le persone sono in grado di gestirsi una situazione di questo tipo, senza conflitti, collaborando, nella totale assenza di direttive e ruoli prestabiliti, non possano fare anche tante altre cose nel campo del lavoro, della vita comunitaria nel quartiere o nella città, dell’educazione scolastica? Fatti di questo tipo ne accadono continuamente nella vita reale, non puoi immaginare quanti. In determinate circostanze storiche (crisi economiche e finanziarie, crollo di regimi dittatoriali, guerre civili, processi di decolonizzazione, fasi successive a catastrofi naturali come i terremoti) ecco che il popolo si sveglia dal torpore e “scopre” l’autogestione, si riprende le fabbriche, i servizi, le scuole, le campagne. L’energia finalmente liberata s’impadronisce della realtà. Il metodo autogestionario può assumere anche un carattere rivoluzionario, soprattutto quando effettivamente i nostri protagonisti si rendono conto che possono osare di più, e sono in grado di prendere parte al grande sogno della rivoluzione – come è accaduto nella Spagna del 1936 – autogestendo ogni ambito lavorativo e di vita: dalla grande industria all’agricoltura, dai servizi fino ai più piccoli esercizi commerciali, nei paesi, nei villaggi e nelle città. In tempi più recenti, approfittando di un momento favorevole, possiamo assistere all’autogestione delle fabbriche, come in Argentina nei primi anni di questo secolo, dopo che i proprietari erano fuggiti all’estero con il denaro per paura delle conseguenze dell’incombente crisi finanziaria. In questo caso si tratta di una metodologia di resistenza che permette ai diretti interessati di lavorare lo stesso anche in assenza del vecchio padrone, ma senza mettere in discussione l’autorità costituita. Esempi di questo tipo ne esistono in molte parti del mondo, a partire proprio dall’America latina dove è molto diffusa la pratica di dare vita a esperienze autogestionarie per condurre determinate lotte o per prendersi cura di territori abbandonati o trascurati dall’autorità centrale, come in Chiapas, ricostruendo un tessuto sociale, economico e politico. L’autogestione può avere infatti varie caratteristiche, può essere limitata ad un ambito, come per esempio l’educazione scolastica, ma può accadere che sia in campo economico addirittura emanazione di uno Stato, com’è accaduto nella ormai estinta Jugoslavia durante la seconda metà del Novecento. Qui i lavoratori si autogestivano la produzione, decidevano autonomamente le varie fasi, i salari, i ritmi, ma all’interno di una pianificazione calata dall’alto. – Somiglia un po’alla teoria del libero arbitrio che Dio avrebbe concesso agli uomini. – Brava, hai fatto un esempio calzante. Nel caso jugoslavo potremmo senz’altro dire che in definitiva gli operai autogestivano il loro sfruttamento. Solo quando è parte integrante di un progetto antigerarchico l’autogestione diviene incompatibile con il sistema autoritario, capitalistico e statale; solamente in questo caso riproduce al suo interno tale incompatibilità, favorendo cioè la piena autonomia individuale, senza gerarchie o ruoli prestabiliti che diano accesso a privilegi. La libertà di tutti i soggetti che fanno parte del progetto convive con la responsabilità individuale, con la rotazione dei ruoli, l’equa distribuzione del sapere e dei beni di prima necessità, l’abolizione della proprietà privata... Non vi può essere infatti possesso individuale dei beni primari, come la terra, le materie prime, gli strumenti e le macchine, di cui la comunità fa uso: appartengono a tutti, perciò a nessuno; sono in prestito da chi ci ha preceduti e vanno in dote a chi ci seguirà. Gli anarchici propugnano il metodo autogestionario anche nelle piccole cose, perché lo ritengono un percorso che può far maturare una coscienza superiore, un’esigenza di progettualità più grande che sboccia da un’esperienza particolare. Vorrei approfondire questo concetto importante, anzi fondamentale, riportandoti un altro esempio piuttosto calzante connesso alla vita quotidiana: pensa a quei ragazzi che condividono un appartamento e gestiscono il loro abitare in comune svolgendo a rotazione ogni tipo di lavoro domestico, specie i più fastidiosi, come pulire il bagno o lavare i piatti, ma anche fare la spesa, cucinare, spolverare... Niente di più naturale e normale: tutto viene svolto secondo il libero accordo, e se fra essi vi fosse, ammettiamo, un ragazzo portatore di qualche handicap, non per questo verrebbe penalizzato. Il suo eventuale limitato contributo materiale all’organizzazione della casa non impedirebbe che ogni premura, ogni attenzione venisse rivolta a lui, senza alcuna discriminazione. Ecco il principio di solidarietà che si sostituisce a qualsiasi legge artificiale e regola le relazioni umane. Torniamo un attimo ai nostri amici di prima, intenti a festeggiare... Supponiamo che decidano, chessò, di rimettere in piedi un vecchio casolare abbandonato per farne una casa accogliente dove trascorrere le vacanze. Ognuno mette in campo le proprie competenze in materia, tutti partecipano alle spese e tutti egualmente si spartiscono il lavoro senza che si sviluppino posizioni privilegiate. E se qualcuno ha meno possibilità di contribuire economicamente rispetto ad altri, prenderà parte lo stesso al progetto senza per questo venire penalizzato. Iniziano i lavori: l’autorità (per usare un termine che dovrebbe sempre fare rizzare i capelli) del falegname, o l’autorità del muratore non danno diritto a questi di assumere posizioni gerarchiche, di comando, ma – se riconosciute dagli altri – sono solo ed esclusivamente il frutto della loro esperienza, e come tale rappresentano la loro autorevolezza in una materia. Ciò definisce il contributo che daranno allo sviluppo dell’opera ma non gli concede in cambio ritorni dal punto di vista materiale, tipo particolari privilegi. Se saranno stati bravi la loro autorevolezza verrà confermata o accresciuta, verranno gratificati per questo, ma dal punto di vista del compenso finale esso sarà uguale a quello di tutti gli altri: la fruibilità di quel luogo che hanno contribuito a ristrutturare per poterci trascorrere le vacanze. – In altre parole vorresti dire che la bravura di una persona non deve essere motivo di gratificazioni economiche... La sua professionalità non deve essere valorizzata, non gli va riconosciuto nessun merito speciale? Ma agendo così non gli si toglie la motivazione, lo stimolo a far meglio? Non si rischia un appiattimento generale? – La capacità professionale di un individuo è il frutto dei suoi studi, del suo impegno, su questo non c’è alcun dubbio. È però anche il prodotto di una società che gli ha permesso, con le sue strutture scolastiche, con gli insegnanti, con i libri e con i saperi che gli ha trasmesso, di divenire capace di fare determinate cose; una società che ha dedicato risorse, energie, tempo, spazi alla sua formazione. Il suo impegno senza tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a farne quello che è diventato; viceversa la cura della società non sarebbe bastata senza i suoi sforzi personali. In quanto ai meriti di cui parli, partiamo da un fatto: ciascun individuo si dedica a qualcosa. Mentre il nostro si applicava nello studio, tanti altri individui lavoravano, producevano, si impegnavano in attività diverse ma altrettanto importanti. Se lui, per fare alcuni esempi, mangiava, si vestiva, viaggiava, leggeva, era perché altre decine di individui coltivavano i prodotti che consumava, tessevano e cucivano i vestiti che indossava, costruivano, guidavano i veicoli che lo trasportavano, scrivevano, stampavano, rilegavano i libri su cui studiava... E così via. Dietro il merito di uno c’è il merito di tutti, questo è il senso di una comunità, di una società. Ora, il fatto che egli abbia raggiunto un certo grado di professionalità e sia entrato nel mondo del lavoro non può rappresentare un fattore di distacco da questo contesto, semmai è il momento in cui egli comincia a restituire parte di quanto ha ricevuto sotto i più svariati aspetti. E credimi, è difficile dire che il pastore che accudisce le sue pecore per ricavarne latte e lana svolga una professione meno importante del professore che pure beve latte e indossa maglioni di lana, o che il lavoro dell’artigiano costruttore di borse sia meno dignitoso e meritevole dell’attività dello studente che riempie una di quelle borse coi libri sui quali studia (…). Stefano Di Benedetto |
Lavoro, istruzione, sanità, giustizia, ma anche Europa ed i suoi contorni. Proviamo a pubblicare in questo blog, tutto quello che i governi decidono sopra le nostre teste, senza il minimo intento ad informarci.
domenica 11 dicembre 2011
Da padre a figli, discorsi di libertà amore ed anarchia
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