venerdì 2 marzo 2012

Discorso Sulla Servitù Volontaria - La Boètie


«No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re»
Così Ulisse, secondo il racconto di Omero, si rivolse all'assemblea dei Greci. Se si fosse fermato alla frase «non è un bene il comando di molti» non avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere ancora più ragionevoli, bisognava aggiungere che il dominio di molti non può essere conveniente dato che il potere di uno solo, appena questi assuma il titolo di signore, è terribile e contro ragione, al contrario il nostro eroe conclude dicendo: «uno sia il capo, uno il re».
E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di aver tenuto un simile discorso che in quel momento gli servì per calmare la ribellione dell'esercito adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza che alla verità […]
Ma in tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio; e quanto più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova.
Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo.
E' un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c'è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio.
Noi uomini siamo così deboli che sovente dobbiamo ubbidire alla forza; in questo caso è necessario prender tempo, non potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una nazione è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città d'Atene ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi della sua servitù ma compiangerla, o meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma
sopportare la disgrazia con rassegnazione e prepararsi per un'occasione migliore nel futuro […]
Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa? Come spiegarla? Quale disgrazia, quale vizio, quale disgraziato vizio fa sì che dobbiamo vedere un'infinità di uomini non solo ubbidire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati a tal punto che non possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria vita?
Vederli soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte di un'armata o di un'orda di barbari contro cui si dovrebbe difendere la vita a prezzo del proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di un Sansone ma di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato la polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace di imporsi agli uomini ma preoccupato di servire la più trascurabile donnicciola.
Ebbene, è forse debolezza tutto questo? Chiameremo vili e codardi tutti coloro che gli si sono assoggettati?
Che due, tre o quattro persone si lascino sopraffare da uno è strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben dire che è mancanza di coraggio. Ma se cento, se mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora parlare di viltà, di timore di scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di mancanza di volontà e di grande abiezione?
E se vediamo non cento o mille persone, ma cento villaggi, mille città, milioni di uomini che non fanno nulla per attaccare e schiacciare uno solo che li tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremo qualificare un simile fatto? Si tratta ancora di viltà?
Ma in tutti i vizi ci sono dei limiti oltre i quali non si può andare; due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma se mille persone, che dico, mille città non si difendono da uno solo questa non è viltà, non si può essere vigliacchi fino a questo punto, così come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo a scalare una fortezza, attaccare un'armata, conquistare un regno!
Che razza di vizio è allora questo se non merita neppure il nome di viltà, se non si riesce a qualificarlo con termini sufficientemente spregevoli, se la natura stessa lo disapprova e il linguaggio rifiuta di nominarlo?
Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte e dall'altra; si schierino per la battaglia e combattano tra loro, gli uni per la propria libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente toccherà la vittoria?
Saranno più coraggiosi in battaglia quelli che sperano di ottenere in premio il mantenimento della loro libertà o coloro che come ricompensa delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui?
I primi hanno sempre davanti agli occhi la felicità del tempo passato e l'attesa di una vita altrettanto lieta per l'avvenire; non si preoccupano delle sofferenze che durano il tempo di una battaglia ma piuttosto pensano a tutte quelle che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti i discendenti.
Gli altri invece non hanno nulla che possa dar loro slancio se non una punta di cupidigia che subito svanisce di fronte al pericolo; in ogni caso il loro coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena inizia ad uscire da una ferita […]

Emilia