«No, non è un bene il comando di molti; uno
sia il capo, uno il re»
Così Ulisse, secondo il racconto di Omero,
si rivolse all'assemblea dei Greci. Se si fosse fermato alla frase «non è un
bene il comando di molti» non avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a
voler essere ancora più ragionevoli, bisognava aggiungere che il dominio di
molti non può essere conveniente dato che il potere di uno solo, appena questi
assuma il titolo di signore, è terribile e contro ragione, al contrario il nostro
eroe conclude dicendo: «uno sia il capo, uno il re».
E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di
aver tenuto un simile discorso che in quel momento gli servì per calmare la
ribellione dell'esercito adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza
che alla verità […]
Ma in tutta coscienza va considerata una tremenda sventura
essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà
buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio
arbitrio; e quanto più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova.
Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti
uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che
non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere
se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel
caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo.
E' un fatto davvero sorprendente e nello
stesso tempo comune, tanto che c'è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti
come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per
costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi
stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza,
dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si
comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio.
Noi uomini siamo così deboli che sovente
dobbiamo ubbidire alla forza; in questo caso è necessario prender tempo, non
potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una nazione è costretta dalla
forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città d'Atene ai trenta
tiranni, non bisogna stupirsi della sua servitù ma compiangerla, o meglio
ancora né stupirsi né lamentarsi ma
sopportare la disgrazia con rassegnazione e
prepararsi per un'occasione migliore nel futuro […]
Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa?
Come spiegarla? Quale disgrazia, quale
vizio, quale disgraziato vizio fa sì che dobbiamo vedere un'infinità di uomini
non solo ubbidire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati a tal punto
che non possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria
vita?
Vederli soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte di
un'armata o di un'orda di barbari contro cui si dovrebbe difendere la vita a
prezzo del proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di un
Sansone ma di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed
effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato la polvere delle
battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace di imporsi agli
uomini ma preoccupato di servire la più trascurabile donnicciola.
Ebbene, è forse debolezza tutto questo?
Chiameremo vili e codardi tutti coloro che gli si sono assoggettati?
Che due, tre o quattro persone si lascino
sopraffare da uno è strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben
dire che è mancanza di coraggio. Ma se
cento, se mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora parlare
di viltà, di timore di scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di
mancanza di volontà e di grande abiezione?
E se vediamo non cento o mille persone, ma cento villaggi, mille
città, milioni di uomini che non fanno nulla per attaccare e schiacciare uno
solo che li tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremo
qualificare un simile fatto? Si tratta ancora di viltà?
Ma in tutti i vizi ci sono dei limiti oltre
i quali non si può andare; due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver
paura di uno. Ma se mille persone, che dico, mille città non si difendono da
uno solo questa non è viltà, non si può essere vigliacchi fino a questo punto,
così come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo a
scalare una fortezza, attaccare un'armata, conquistare un regno!
Che razza di vizio è allora questo se non merita neppure il nome
di viltà, se non si riesce a qualificarlo con termini sufficientemente
spregevoli, se la natura stessa lo disapprova e il linguaggio rifiuta di
nominarlo?
Si mettano cinquantamila uomini armati da
una parte e dall'altra; si schierino per la battaglia e combattano tra loro,
gli uni per la propria libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente
toccherà la vittoria?
Saranno più coraggiosi in battaglia quelli che sperano di
ottenere in premio il mantenimento della loro libertà o coloro che come
ricompensa delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui?
I primi hanno sempre davanti agli occhi la
felicità del tempo passato e l'attesa di una vita altrettanto lieta per
l'avvenire; non si preoccupano delle sofferenze che durano il tempo di una battaglia
ma piuttosto pensano a tutte quelle che dovranno sopportare per sempre loro
stessi, i figli e tutti i discendenti.
Gli altri invece non hanno nulla che possa
dar loro slancio se non una punta di cupidigia che subito svanisce di fronte al
pericolo; in ogni caso il loro coraggio si ferma alla vista della più piccola
goccia di sangue appena inizia ad uscire da una ferita […]
Emilia
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