Statuto
dei lavoratori, con questa denominazione ci si riferisce
alla legge n. 300 del 20 maggio 1970,
recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento", che è una delle norme principali
del diritto del lavoro italiano. Il testo dello Statuto dei
lavoratori contiene norme relative a numerose previsioni specifiche, tra quale
l’articolo 18 che afferma : il licenziamento è valido se avviene per
giusta causa o giustificato motivo; “Art. 18 - Reintegrazione nel posto di
lavoro : Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7
della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara
inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o
annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo,
ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di
lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento,
filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento
occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque
se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di
lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro,
imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano
più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito
territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità
produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni
caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue
dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Ai fini del computo del numero
dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori
assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con
contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente
svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative
fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del
settore.” Quindi, in assenza di questi presupposti, il giudice dichiara
l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto
di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15
mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di
servizio. Il lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la
sospensione del provvedimento del datore fino alla conclusione del
procedimento, della durata media di 3 anni. Nelle aziende che hanno fino a 15
dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può
scegliere se riassumere il dipendente o pagargli un risarcimento. Può quindi
rifiutare l'ordine di riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento.
La differenza fra riassunzione e reintegrazione è che il dipendente perde
l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente contratto. Ci sono
ditte con 14 o 15 dipendenti che avrebbero bisogno di assumere nuovi
lavoratori, ma non lo fanno perché superando la soglia dei 15 dipendenti
sarebbero sottoposte all'art. 18, vale a dire che tutti i dipendenti potrebbero
essere licenziati solo per giusta causa o giustificato motivo, oppure aggirano
l'ostacolo assumendo dei lavoratori in nero. Per facilitare le assunzioni da
parte di queste imprese e per indurle a mettere a libro paga i lavoratori in
nero, il governo propone che le piccole ditte che assumono nuovi dipendenti anche
se superano il numero 15 non saranno sottoposte all'art. 18.
L'articolo citato è stato oggetto di un referendum
abrogativo, promosso da PRI, Radicali e Forza Italia nel 2000, respinto a larga
maggioranza dal 66% dei votanti. Il progetto di riforma in discussione alla
Camera, prevedeva che il datore, qualunque sia la dimensione dell'azienda,
possa licenziare per giustificato motivo oggettivo, per motivazione
economico-organizzativa, senza alcun onere della prova. La riforma prevedeva
anche l'introduzione di una causa di licenziamento individuale, che non può
essere sindacata dai giudici del lavoro, e che dunque fornisce un pretesto, una
libertà di licenziamento de facto. Oggi con l’approvazione definitiva, il
19 ottobre 2010, della Camera dei Deputati, è legge il disegno di legge
collegato alla manovra di bilancio dal titolo "Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di
incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro".
Si tratta della Legge 4 novembre 2010,
n.183, pubblicata nella G.U n.262 del 9 novembre 2010, in vigore
dal 24 novembre 2010. Nel testo collegato alla legge 1167, che tratta la
sostanziale riforma dei rapporti di lavoro, persiste il rischio che vengano
cancellati i principi contenuti nello statuto dei lavoratori nella legge n.300
del 1970. Il disegno di legge in questione introduce nuovi meccanismi con
l’unico obiettivo di smantellare definitivamente ogni possibile aggancio con il
diritto al lavoro stabile ed altro ancora, contro i lavoratori dipendenti siano
essi pubblici che privati. I cambiamenti sono numerosi e tutti pessimi, e gli
articoli più scottanti sono in particolar modo l’articolo 30 che riguarda la
certificazione del contratto di lavoro, il 31 la conciliazione e l’arbitrato,
il 32 su decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
determinato. In materia di controversie individuali di lavoro, il tentativo di
conciliazione, attualmente obbligatorio, diventa una fase eventuale e vengono
introdotti una pluralità di mezzi di composizione delle controversie di lavoro
alternativi al ricorso al giudice. L’introduzione del principio
“dell’arbitrato con equità” per tutti i contenziosi sul lavoro, nel concreto,
significa escludere ogni possibilità di ricorso al giudice del lavoro da parte
del dipendente per ottenere giustizia rispetto a eventuali contenziosi per
diritti violati su orari, condizioni di lavoro oppure licenziamento senza
giusta causa. In questo modo tutti i lavoratori neo assunti, magari licenziati
dalla crisi ed in cerca di nuova occupazione, sarebbero in qualche modo
costretti a rinunciare preventivamente a difendere i loro diritti in un
tribunale, considerando che i datori di lavoro sarebbero a conoscenza di
questa fondamentale rinuncia fin dall’inizio .In questo modo, l’utilità
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che aveva il compito di tutelare
gli stessi rispetto al licenziamento coatto senza giusta causa verrebbe
inesorabilmente scavalcato e messo preventivamente fuori uso abbandonando i
lavoratori in una pericolosa situazione di disagio e senza la garanzie previste
dalle tutele giuridiche. E’ stato introdotto l’obbligo di impugnazione entro 60
giorni di ogni forma di cessazione (scadenza, interruzione) di tutti i
contratti atipici (contratti a termine, collaborazioni a progetto, somministrazione
etc.). Tale obbligo è inoltre esteso nei casi di allontanamento verbale dal
posto di lavoro. Questo non è altro che un maxicondono a favore delle aziende
che hanno abusato di lavoro precario. In realtà con tale norma, che affronta
tantissime questioni riguardanti il mondo del lavoro, si tende a tutelare solo
l’interesse dei padroni e dei confindustriali e dei piccoli imprenditori.
Questa ennesima riforma ha come unico obiettivo quello di portare a termine la
lunga opera di precarizzazione iniziata con il pacchetto Treu e poi abilmente
proseguita con la Legge 30. Non solo ci fanno pagare la crisi ma voglio anche
gli interessi a tasso usuraio. Forse uno dei passaggi indispensabili allo scopo
di uscire dal dramma contemporaneo della gravissima crisi socio-economica, sia
proprio quello di ritornare al fondamentale principio di stabilità salariale in
controtendenza rispetto all’andamento delle recenti riforme in tema di mercato
del lavoro, che sin dal 2003 con l’approvazione della legge 30 voluta dalla
Lega del Ministro Maroni ed approvata dall'allora Governo delle destre, ha reso
la precarietà fattore predominante nei contratti generando un vero dramma
sociale contemporaneo