venerdì 10 gennaio 2014

Lavoro e dintorni

Statuto dei lavoratori, con questa denominazione ci si riferisce alla legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento", che è una delle norme principali del diritto del lavoro italiano. Il testo dello Statuto dei lavoratori contiene norme relative a numerose previsioni specifiche, tra quale l’articolo 18 che afferma : il licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo; “Art. 18 - Reintegrazione nel posto di lavoro : Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore.” Quindi, in assenza di questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio. Il lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento, della durata media di 3 anni. Nelle aziende che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o pagargli un risarcimento.  Può quindi rifiutare l'ordine di riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento. La differenza fra riassunzione e reintegrazione è che il dipendente perde l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente contratto. Ci sono ditte con 14 o 15 dipendenti che avrebbero bisogno di assumere nuovi lavoratori, ma non lo fanno perché superando la soglia dei 15 dipendenti sarebbero sottoposte all'art. 18, vale a dire che tutti i dipendenti potrebbero essere licenziati solo per giusta causa o giustificato motivo, oppure aggirano l'ostacolo assumendo dei lavoratori in nero. Per facilitare le assunzioni da parte di queste imprese e per indurle a mettere a libro paga i lavoratori in nero, il governo propone che le piccole ditte che assumono nuovi dipendenti anche se superano il numero 15 non saranno sottoposte all'art. 18. L'articolo citato è stato oggetto di un referendum abrogativo, promosso da PRI, Radicali e Forza Italia nel 2000, respinto a larga maggioranza dal 66% dei votanti. Il progetto di riforma in discussione alla Camera, prevedeva che il datore, qualunque sia la dimensione dell'azienda, possa licenziare per giustificato motivo oggettivo, per motivazione economico-organizzativa, senza alcun onere della prova. La riforma prevedeva anche l'introduzione di una causa di licenziamento individuale, che non può essere sindacata dai giudici del lavoro, e che dunque fornisce un pretesto, una libertà di licenziamento de facto. Oggi con l’approvazione definitiva, il 19 ottobre 2010, della Camera dei Deputati, è legge il disegno di legge collegato alla manovra di bilancio dal titolo "Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro". 
Si tratta della Legge 4 novembre 2010, n.183, pubblicata nella G.U n.262 del 9 novembre 2010, in vigore dal 24 novembre 2010.  Nel testo collegato alla legge 1167, che tratta la sostanziale riforma dei rapporti di lavoro, persiste il rischio che vengano cancellati i principi contenuti nello statuto dei lavoratori nella legge n.300 del 1970. Il disegno di legge in questione introduce nuovi meccanismi con l’unico obiettivo di smantellare definitivamente ogni possibile aggancio con il diritto al lavoro stabile ed altro ancora, contro i lavoratori dipendenti siano essi pubblici che privati. I cambiamenti sono numerosi e tutti pessimi, e gli articoli più scottanti sono in particolar modo l’articolo 30 che riguarda la certificazione del contratto di lavoro, il 31 la conciliazione e l’arbitrato, il 32 su decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato. In materia di controversie individuali di lavoro, il tentativo di conciliazione, attualmente obbligatorio, diventa una fase eventuale e vengono introdotti una pluralità di mezzi di composizione delle controversie di lavoro alternativi al ricorso al giudice. L’introduzione del  principio “dell’arbitrato con equità” per tutti i contenziosi sul lavoro, nel concreto, significa escludere ogni possibilità di ricorso al giudice del lavoro da parte del dipendente per ottenere giustizia rispetto a eventuali contenziosi per diritti violati su orari, condizioni di lavoro oppure licenziamento senza giusta causa. In questo modo tutti i lavoratori neo assunti, magari licenziati dalla crisi ed in cerca di nuova occupazione,  sarebbero in qualche modo costretti a rinunciare preventivamente a difendere i loro diritti in un tribunale, considerando che i datori di lavoro  sarebbero a conoscenza di questa fondamentale rinuncia fin dall’inizio .In questo modo, l’utilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che aveva il compito di tutelare gli stessi rispetto al licenziamento coatto senza giusta causa verrebbe inesorabilmente scavalcato e messo preventivamente fuori uso abbandonando i lavoratori in una pericolosa situazione di disagio e senza la garanzie previste dalle tutele giuridiche. E’ stato introdotto l’obbligo di impugnazione entro 60 giorni di ogni forma di cessazione (scadenza, interruzione) di tutti i contratti atipici (contratti a termine, collaborazioni a progetto, somministrazione etc.). Tale obbligo è inoltre esteso nei casi di allontanamento verbale dal posto di lavoro. Questo non è altro che un maxicondono a favore delle aziende che hanno abusato di lavoro precario. In realtà con tale norma, che affronta tantissime questioni riguardanti il mondo del lavoro, si tende a tutelare solo l’interesse dei padroni e dei confindustriali e dei piccoli imprenditori. Questa ennesima riforma ha come unico obiettivo quello di portare a termine la lunga opera di precarizzazione iniziata con il pacchetto Treu e poi abilmente proseguita con la Legge 30. Non solo ci fanno pagare la crisi ma voglio anche gli interessi a tasso usuraio. Forse uno dei passaggi indispensabili allo scopo di uscire dal dramma contemporaneo della gravissima crisi socio-economica, sia proprio quello di ritornare al fondamentale principio di stabilità salariale in controtendenza rispetto all’andamento delle recenti riforme in tema di mercato del lavoro, che sin dal 2003 con l’approvazione della legge 30 voluta dalla Lega del Ministro Maroni ed approvata dall'allora Governo delle destre, ha reso la precarietà fattore predominante nei contratti generando un vero dramma sociale contemporaneo

Emilia

Lavoro e dintorni

La Costituzione contribuì in maniera essenziale alla strutturazione delle basi del nostro Diritto del lavoro, introducendo principi che, successivamente, lo Statuto dei lavoratori avrebbe fatto propri. Principi come quelli dell'Art. 1: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.” e dell'Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. 
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” che, oltre a decretare il lavoro come base stabile del nostro ordinamento repubblicano, ne sanciscono anche il diritto ad ogni cittadino. 
Le conquiste ottenute riguardavano significative limitazioni opposte avverso una certa "disinvoltura" nella gestione dei lavoratori: la fissazione di limiti minimi di età per il lavoro minorile in cave e miniere, la riduzione della durata della giornata lavorativa ad 11 ore per i minori ed a 12 per le donne, il diritto di associazione sindacale e quello di sciopero, le prime normative antinfortunistiche, il divieto di mediazione di lavoro (caporalato), insieme ad altre norme oggi forse non ben riconoscibili nell'importanza che ebbero al tempo in cui furono emanate.
Dalla metà degli anni 70 il lavoro viene colpito ed i lavoratori non hanno più garanzie e certezze per il futuro. L’Art 18, (reintegrazione del posto di lavoro) dello Statuto è sempre stato oggetto di dispute e lotte, e oggi più che mai, grazie ai partiti attuali, partiti di plastica e perfettamente inseriti nell’involuzione culturale berlusconiana, assenti o di parte, si agevola la classe imprenditoriale, modificando il citato articolo, con l’intento pian piano di abrogarlo definitivamente. Ai giorni nostri si arriva a vedere un Marchionne che guadagna quanto 450 operai e priva gli stessi di ogni garanzia e diritto per delocalizzare all’estero. Eppure, l’Art 41 della Costituzione recita: “’Iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi contro l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” o l’Art 36 che recita testualmente: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”

Dubito che i padri costituenti avessero in mente il progetto di società dei Marchionne quando scrissero l’Art 1 della Costituzione. Viene tanto decantata la libertà (parola usata in modo assolutamente sterile e privo di significato) dai partiti di oggi, ma che significato può rivestire la libertà se non la si associa all’uguaglianza? Nessuno! Ed i costituenti non a caso, nell’Art 3, posero il principio dell’uguaglianza formale e di quella sostanziale.

Emilia