domenica 12 gennaio 2014

Lavoro e dintorni

Le politiche di deregolamentazione del lavoro, il cui punto più alto si raggiunse con lo Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) sono iniziate con il Pacchetto TREU (quindi da parte degli allora DS) e continuate vergognosamente con la Legge Biagi.

- Il pacchetto TREU con la legge 24 giugno 1997, n.196 (c.d. pacchetto Treu, oggi abrogata dal D. lgs. n° 276/2003), introduce il lavoro interinale ( o lavoro temporaneo, oggi sostituito dalla somministrazione di lavoro). ). Essendo un contratto di fornitura di lavoro temporaneo, quando rinnovato più di una volta potrebbe fornire a un'azienda un valido pretesto per mascherare una posizione lavorativa subordinata e legata ad un fabbisogno non di carattere temporaneo ma stabile, creando altre situazioni di precarietà, benché in materia di disciplina sanzionatoria del contratto a tempo determinato, Art 12 citi: “Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione….Se il rapporto di lavoro continua oltre il 20imo giorno in caso di contratto di durata inferiore ai 6 mesi ovvero oltre il 30imo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini..”.
Emergono, infatti, fattori di insicurezza sociale legati soprattutto al versamento dei contributi pensionistici ed altri benefici importanti. Molti corsi di formazione rivolti all'inserimento (o al reinserimento) di fasce professionali a rischio (in Italia, laureati in facoltà umanistiche, operai non specializzati, donne, immigrati, portatori di handicap) prevedono un tirocinio formativo presso un'azienda. Ma non sempre il contratto è rinnovato alla fine del corso di formazione, o si trasforma spesso in lavoro interinale di durata limitata.

- La legge Biagi introduce una serie di novità la cui portata è paragonabile allo Statuto dei lavoratori. Diversamente da quest'ultimo, però, si parte dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, nell’attuale congiuntura economica, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e inoltre che la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione. Alla flessibilità del lavoro, pur prevista nella normativa, di fatto non ha fatto seguito una riforma perpendicolare sugli ammortizzatori sociali: sicché una situazione di lavoro flessibile è divenuta sotto alcuni profili una situazione precaria: ciò soprattutto in un contesto economico nel quale non è facile e rapido il ricollocamento nel mondo del lavoro.
Dovendo le aziende versare minori contributi, i lavoratori precari hanno un accantonamento pensionistico inferiore ai loro colleghi con contratti tipici.
Nel mercato del lavoro, le retribuzioni e i livelli di qualifica non sono proporzionate al livello di istruzione crescente delle ultime generazioni. Esiste inoltre una forte differenza di salario, a parità di mansioni, tra operaio, quadro e impiegato di concetto, fra i differenti contratti nazionali.

Il precariato, inoltre, pone il dipendente in una situazione di debolezza per mancanza di continuità del rapporto di lavoro e certezza sul futuro e mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura. Sottoposto al rischio di perdere il lavoro, più difficilmente potrà rivendicare i suoi diritti (sicurezza compresa) ed un salario migliore. In un contesto lavorativo come quello italiano, essere precari significa non poter mettere a frutto il proprio titolo di studio, che ai fini reddituali risulta del tutto ininfluente, significa dequalificare il proprio profilo personale e significa soprattutto incrementare i profitti delle imprese (con il lavoro nero) e comprimere i redditi, (contratti cosiddetti flessibili, part-time, contratti a termine, lavoro interinale, lavoro parasubordinato).

Emilia