venerdì 10 febbraio 2012

Leggi e lavoratori


Passano gli anni, più o meno gli stessi personaggi ambigui al governo, ed ogni volta si presentano con la smania di voler ad ogni costo “migliorare, cambiare, rimescolare le carte” delle normative per quanto riguarda il lavoro.
Devo riconoscere che non mi ritrovo più, persa tra un passaggio e l’altro…legge che passa, decreto abrogato, articolo modificato, comma Xbis inserita, parole da “a” alla “y” cambiate con “x % di b”….insomma come diavolo fa uno a capire come si deve comportare ad esempio, in caso di licenziamento? E se poi è illegittimo?  Quale è la differenza tra tutela reale e tutela obbligatoria?
La tutela reale è prevista dall’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e si applica nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti, e in ogni caso ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di sessanta lavoratori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo delle unità produttive. In caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, il giudice ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Inoltre, il datore di lavoro deve risarcire il lavoratore del danno patito.
La tutela obbligatoria è, invece, prevista dall’art. 8 della Legge 604/1966, sostituito dall’art. 2 della Legge 108/1990, e si applica ai datori di lavoro privati, imprenditori e non, che occupino alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori. In tale ipotesi, quando il giudice accerti con sentenza che non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo intimato dal datore di lavoro, quest’ultimo è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro tre giorni oppure a risarcire il danno da questo patito, versandogli un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni.
La rilevante differenza fra la tutela obbligatoria e la tutela reale, è che nel secondo caso la scelta tra riassunzione o il pagamento del risarcimento del danno, spetta al datore di lavoro. 
Le Legge 108/1990 nasce in seguito ad un referendum proposto dalla Democrazia Proletaria, referendum non ammesso dalla Corte Costituzionale, con quale si voleva modificare la Legge 300/1970 in diverse parti, allargando la sfera dei beneficiari.
Con la Legge 108 il requisito della “giusta causa” diventa necessario per quasi tutti i licenziamenti, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa. Inoltre la Legge 604/1966, pone un ulteriore limite al licenziamento, ovvero la forma con quale il licenziamento viene esercitato. Infatti, l’articolo 2 della citata legge, ritoccato dalla 108/1990, stabilisce che il licenziamento venga comunicato al lavoratore in forma scritta, anche se non è indispensabile indicare i motivi del licenziamento. In ogni caso, il lavoratore può richiedere entro 15 giorni i motivi del suo licenziamento e il datore di lavoro deve comunicarli in forma scritta entro 7 giorni dalla richiesta. Il lavoratore ha 60 giorni di tempo per impugnare il provvedimento, ma prima di ricorrere all’autorità giudiziale, si fa ricorso ad un tentativo di conciliazione, obbligatorio in seguito al decreto legislativo 387/1998, ed in seguito ha 5 anni per depositare il ricorso il Tribunale e dare avvio alla causa vera e propria.
Siccome le grandi onorevoli menti si sono detti che cosi non c’è abbastanza flessibilità e si protegge troppo il lavoratore, hanno ritenuto opportuno rivedere questa “giusta causa” con il collegato lavoro nel 2010, cioè la Legge 183/2010.
Con il nuovo collegato lavoro si introducono una serie di novità che riguarda il rapporto tra datore di lavoro ed il lavoratore.
Per quanto riguarda la giusta causa o il giustificato motivo è introdotta una previsione tendente a escluderla laddove questa non sia prevista dai contratti collettivi stipulati in accordo con i sindacati caratteristici del singolo settore produttivo o del contratto individuale qualora il collettivo non fosse previsto, quindi prima di procedere all’impugnazione del licenziamento, ci si deve accertare della presenza della stessa.
Riguardo ai termini per l’impugnazione del licenziamento resta di 60 giorni, che iniziano a decorrere dalla data della ricezione della comunicazione, ma per ricorrere al giudice il termine è stato drasticamente ridotto a 270 giorni. Scaduti questi giorni, non solo non si può più fare la causa, ma si perde anche il diritto al risarcimento del danno. Inoltre è prevista la possibilità di ridefinire nel corso del rapporto di lavoro con il singolo dipendente ulteriori cause di recesso dal rapporto di lavoro.
La conciliazione diventa facoltativa eccetto per i contratti certificati, ed in caso si tenti questa strada è previsto l’obbligo di indicare nella richiesta di conciliazione le motivazioni in diritto ed in fatto (in mancato accordo si ha 60 giorni di tempo per fare ricorso).
Durante il processo di conciliazione sarà possibile risolvere la controversia mediante un arbitrato irrituale che vincola le parti al pari di un accordo. Sarà possibile inoltre procedere con le forme di arbitrato previste dai contratti collettivi dei singoli settori, l’arbitrato presso gli organi di certificazione, l’arbitrato irrituale presso il collegio di conciliazione. Quello che preoccupa maggiormente nel collegato lavoro è che sono state previste delle clausole compromissorie che danno la possibilità di vincolare le parti a non fare riferimento al Giudice del Lavoro ma ad arbitri per sanare eventuali controversie tra datore e lavoratore.
Cosa non si fa pur di assicurare la”certezza del diritto “ delle imprese??? 
Beh, questo ed altro, visto che tra le mille forme di contratti, le tante misure adottate a discapito del lavoratore, una vera e giusta normativa da noi forse mai si farà nel nome del nuovo mercato del lavoro….


Emilia